Finanziamenti startup: convertible note

Categorie: Startup
Novembre 7, 2022
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Nel precedente blog post abbiamo visto le diverse modalità di finanziamento delle startup, che possono andare dall’equity puro al debito tradizionale. Tra questi due estremi, esistono molte forme di finanziamento ibride, collocabili in una “via di mezzo” tra equity e debito (per questo chiamate di “Mezzanine Financing”!): i più diffusi sono certamente i convertible note, o finanziamenti convertibili, su cui ci soffermiamo in questo articolo, per capire come funzionano e qual è il motivo della loro diffusione.

I convertible note sono degli strumenti cosiddetti di quasi-equity, per la propria natura intermedia tra equity e debito, che prevedono l’erogazione di un finanziamento sotto forma di debito al quale è abbinata un’opzione di conversione in equity che il portatore può esercitare in alcuni casi o al verificarsi di alcune condizioni. Si parla spesso infatti di “trigger event”, generalmente identificato in un round di investimento successivo al quale ci si aggancia anche per le condizioni economiche. L’evento, stabilito di comune accordo tra le parti e dunque di natura contrattuale, ovviamente può essere qualsiasi altro avvenimento, non per forza collegato alle operazioni sul capitale della società ma molto spesso collegato a cambi di valorizzazione della società, come il raggiungimento di una milestone, o delle sue disponibilità liquide (cd. “Liquidity event”).

Vista la natura contrattuale di questo strumento, l’investitore e la startup si troveranno a dover trattare su diverse condizioni, quali:

  • data di scadenza per il verificarsi dell’evento e/o per l’esercizio del diritto di conversione oppure per la restituzione del finanziamento. Dopo tale data il convertible diventa un titolo di debito;
  • tasso di interesse: qualora non venga esercitato il diritto di conversione, lo strumento è riconducibile ad un debito puro che quindi genera un costo, cioè un interesse che matura sull’importo prestato. Le parti possono decidere se riconoscere in cash tali interessi oppure se dare la possibilità all’investitore di convertire anche gli interessi maturati fino al momento della conversione;
  • valuation cap: qualora si decida di agganciare le condizioni economiche del convertible ad un round successivo, l’investitore generalmente pone un limite entro il quale andrà a convertire il suo finanziamento, espresso in termini assoluti, per evitare una diluizione troppo alta riconoscendo così il maggior rischio di cui si è fatto carico investendo una somma in una fase di maggiore incertezza (tipica delle fasi pre-seed e seed) della startup rispetto all’investitore successivo
  • discount: può essere alternativo o complementare al valuation cap e determina lo sconto alla valutazione al quale l’investitore ha diritto, determinando il minor prezzo che pagherà per le stesse logiche del punto precedente.

Ma vediamo un esempio:

L’investitore eroga i 100k e finanzia le attività della startup. Dopo un anno la startup firma un MOU per l’ingresso di un nuovo investitore che finanzierà un round con 600k ad una premoney valuation di 1,5M. Il titolare del convertible può esercitare il suo diritto, convertendo 108k (l’importo originario più gli interessi maturati) ad una valutazione di 1,125k (1,5M -25%). Discount e cap in questo caso erano complementari e, stando al di sotto del cap, ha prevalso l’effetto dello sconto. Qualora il terzo investitore avesse riconosciuto una premoney di 3M, la conversione sarebbe avvenuta al cap di 2M. 

I benefici del convertible note sono generalmente riconducibili ad un minor costo (non è necessario l’atto notarile e il lavoro dei legali è più contenuto) e alla maggiore semplicità dello strumento rispetto agli accordi necessari a regolare le partecipazioni in equity richieste dagli investitori anche se solitamente collegata ad una minore flessibilità delle condizioni. Dal lato della startup il convertible permette di assorbire un rischio di una diluizione che dovrebbe essere particolarmente alta vista la rischiosità della fase in cui si trova, rimandando la discussione sulla valuation in un secondo momento e ad un terzo investitore, che si troverà ad elaborarne una quando la startup avrà sperabilmente generato valore. 

Va da sé che le fasi in cui è maggiormente diffuso questo strumento sono le fasi di “early stage” in cui le evoluzioni sono rapide e ben visibili e dove il founder ha più fretta di fare fundraising per poter lavorare sul prodotto/servizio.

Se da un lato questo strumento avvantaggia i founder, bisogna sottolineare che, qualora la situazione non fosse positiva come ci si attendeva, lo strumento è un debito e in quanto tale è “senior” rispetto all’equity e quindi una incapacità di rimborso (che ovviamente sarà richiesto dall’investitore deluso!) potrebbe causare il fallimento della startup, come si vede dall’immagine sottostante.

In ogni caso, per contenere i rischi legati all’esito del fundraising è necessario avere un percorso chiaro per massimizzare la creazione di valore e dei meccanismi di incentivo che tengano allineati gli interessi di entrambe le parti.